Due giorni in Valle di Breguzzo
Il dio dell’autunno era ancora al lavoro, ed io mi sono messo silenziosamente alle sue spalle, per non disturbare, e per coglierne da ladro tutti i segreti. Dapprima ha scelto le varie parti, definendone sommariamente il carattere prevalente: qui deve risaltare il bianco, lì il grigio, là il rosso mattone, lì il giallo, sopra il miele, là il rosso ocra, l’azzurro, il verde chiaro, poi lo scuro... Quando fu soddisfatto dell’impianto complessivo passò ai particolari, ed improvvisamente si trasformò da meditato signore in furioso invasato. Afferrava i pennelli senza badare alla loro misura, li intingeva nella poltiglia che aveva formato ad un lato della tavolozza e dal nulla faceva apparire la corteccia di una betulla, i rami del larice, il fusto dell’abete, stendeva la trina delle tremule foglie del faggio, protendeva verso il grigio estenuato delle rocce le radici superficiali dell’acero. Proseguì a lungo, in un crescendo agitato che dava le vertigini anche a me che ero semplice testimone. Alla fine crollò esausto e quasi svenne, come ebbro del suo lavoro. Poi si riprese, e guardò a quanto aveva fatto. Accennò un sorriso, ed il viso si abbandonò al piacere di chi vede il buon frutto del suo lavoro.
Si levava un’aria frizzante, e le foglie sempre più numerose lasciavano i rami e volteggiavano sui prati. Le baite, come vecchine rannicchiate, si assopivano sotto quella nevicata, e già io pensavo al profumo del vino nuovo e delle castagne.
Si levava un’aria frizzante, e le foglie sempre più numerose lasciavano i rami e volteggiavano sui prati. Le baite, come vecchine rannicchiate, si assopivano sotto quella nevicata, e già io pensavo al profumo del vino nuovo e delle castagne.