mercoledì, ottobre 29, 2008

1972

Sarà stata la cena pesante (tagliolini fatti in casa col brodino e quattro olive farcite col peperoncino), sarà stato il torcimento di budella nel vedere il Berlusca, dal colore di capelli sempre più improbabile, che dice con un ghigno: «Ma ne frego!», fatto sta che ho avuto un sonno agitato.
Dapprima mi è apparsa Mina che cantava “Balada para mi muerte” accompagnata da Astor Piazzolla, ed ho pensato che la signora Ciccone non è neppure degna di farle da corista, e che allora la televisione era una cosa seria, ed oggi è ridotta ad un emporio sgangherato.
Poi mi son visto che discutevo la tesi nell’ammezzato tutto vetri dell’istituto di storia medievale e moderna alla facoltà di Lettere di via Zamboni, con mio padre che scoppiava di orgoglio tenendo una copia in grembo alle mie spalle.
Poi mi son visto in una delle trattorie vicine all’università a Bologna a pranzare abbondantemente e gustosamente per 500 lire, insieme ad altri studenti, gomito a gomito con Eco, Traina, Raimondi, Arcangeli, immersi nel fumo ed in un vocìo immensamente più gradevole delle musicastre che oggi mi costringono ad ascoltare nei self-service, dove debbo oltretutto ingoiare piatti insulsi per 12 euro.
Dal buio di una sala cinematografica emergeva Hitchcock che presentava lo stregonesco “Frenzy”, e dietro di lui quel matto di Peckinpah indicava “Getaway!” e Steve McQueen con la bocca semiaperta al volante; John Huston li spingeva da parte e con uno sberleffo apriva il sipario su “L'uomo dai sette capestri”, un Paul Newman imbronciato col fucile sulle ginocchia; su tutti sormontava Sydney Pollack, che invece apriva tra le mani un Robert Redford impegnato a parlare di tolleranza impersonando Jeremiah Johnson nello Utah del 1850; in un angolo Elio Petri accennava al dito mozzo di Gian Maria Volonté ne “La classe operaia va in paradiso”, straordinario apologo sull’operaio italiano degli anni del boom; Francis Ford Coppola con le palpebre semichiuse come Marlon Brando urlava “Il padrino”; Mark Rydell invece, con l’aria di chi la sa lunga proponeva un anziano John Wayne ne “I cowboys”, che insegna a dieci ragazzini come il massacro dei nemici prepari un mondo migliore, anticipando Ronald Reagan; Luis Buñuel squisitamente annunciava “Il fascino discreto della borghesia”, dove il sogno, invece che allontanare, aiuta a comprendere in profondo la realtà; Jean-Pierre Melville, stancamente, riproponeva un ganster-movie, “Notte sulla città”, con un Alain Delon, particolarmente triste ed una luminosa Catherine Deneuve che dice tre battute in tutto il film; mentre René Clément si affidava con successo alla suspense, con Jean-Louis Trintignant, ne “La corsa della lepre attraverso i campi”; Marco Bellocchio ruggiva con “Sbatti il mostro in prima pagina”; il monumento George Cukor offriva il delicato e spiritoso “In viaggio con la zia”; Francesco Rosi continuava la sua crociata con “Il caso Mattei”; Michael Ritchie ci toglieva ogni illusione con “Il candidato”, un Robert Redford che non sa rendersi conto di come sia potuto cadere così in basso per far carriera politica; Blake Edwards provava con il giallo, “Il caso Carey”, affidandosi a James Coburn; Ken Russel abbandonava per un attimo le sue visioni malsane e si dava alla biografia con “Messia selvaggio”; Peter Bogdanovich scherzava con una brillante Barbra Streisand in “Ma papà ti manda sola?”; Sidney Lumet, sicuro, gettava sulla scena Sean Connery in “Rapina record a New York”; John Boorman ci faceva rabbrividire con “Un tranquillo week-end di paura”; Terence Young preferiva un western insolito, “Sole rosso”, disegnando un dittico difficile da tenere insieme, con Charles Bronson e Toshiro Mifune; John Sturges seguiva la tradizione con Clint Eastwood in “Joe Kidd”; Valerio Zurlini illustrava un naufragio esistenziale in “La prima notte di quiete”.
Ma nel bailamme che disorientava, alla fine ho trovato consolazione: che lussureggiante ricchezza! Che anno, il 1972... E la nostalgia si è fatta tranquillo sonno profondo.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Siamo tanti,troppi a doversi rifugiare nel passato per trovare serenità.Purtroppo il "me ne frego"
ce lo dovremo tenere,almeno,per altri quattro anni.Alla fine,chissà cosa resterà del nostro
vecchio mondo!
teresa

10:35 AM  

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